Cinema & Architettura. Mario Martone a NABA

 

Milano, 2 aprile 2014. Sui tetti della Galleria Sozzani, Gianluigi Ricuperati, direttore di Domus Academy, insieme a Italo Rota e a Margherita Palli, ha aperto la conversazione con Mario Martone citando una frase di Robert Bresson, tratta dalle Note sul cinematografo (Marsilio, 2001): “Il tuo pubblico non è il pubblico delle librerie, né quello degli spettacoli, o delle esposizioni o dei concerti. Tu non hai soddisfare il tuo gusto letterario, né quello teatrale, o pittorico o musicale.” Questo passo funge da viatico per entrare nel tema della serata: la relazione nell’opera di Martone tra diverse forme espressive. La formazione di questo regista è infatti fin dagli inizi multidisciplinare. Il suo lavoro viene alimentato da una curiosità ossessiva e ricorsiva nei confronti delle realtà artistiche che si svilupparono tra la Roma e la Napoli degli anni ’70, soprattutto del mondo delle gallerie e del cosiddetto “teatro di cantina”. Le sue prime esperienze sono installazioni a metà tra la performance artistica, l’invenzione scenografica e il teatro. Se non avesse fatto il regista, Mario Martone, sarebbe diventato probabilmente architetto. La regia per lui è spazio e corpo, prima ancora di essere narrazione. Dove si trova quindi il teatro? Nel rapporto tra lo spazio e gli spettatori, che così lo vivono insieme agli attori. Questa concezione spaziale della narrazione emergerà anche nel Così fan tutte, nato dalla collaborazione con il Maestro Claudio Abbado nel 2000. I cantanti andavano letteralmente incontro al pubblico, attraversavano la platea, si insinuavano in uno spazio che prima non era mai stato dedicato a loro.

Quella da cui ha iniziato Martone era un’arte povera, che non aveva bisogno di (quasi) nulla. Un’arte fatta di luce, che andava alla ricerca della relazione tra il corpo – diventato ombra – e lo spazio. L’architettura, infatti, non è una questione visiva, ma è qualcosa che ha a che fare con la percezione, con il flusso della vita. È un iperspazio. Così come il cinema non è una disciplina statica, ma un processo artistico in divenire, in continua interazione con il tempo. Le loro opere si dibattono in un’idea progettuale che deve farsi realtà. La preparazione del film è come il tendersi dell’arco nello zen. È il momento più disciplinato del lavoro, perché è il momento in cui bisogna mirare. Un film non inizia mai il primo giorno di riprese, inizia molto prima. È la continua ricerca di qualcosa che hai visto, dove l’orientamento è dato dalla sceneggiatura che diventa a tutti gli effetti una mappa. Una delle difficoltà maggiori è poi riuscire a tenere in vita le proprie visioni per anni, fino alla data dell’appuntamento, dove ci si giocherà il tutto per tutto. E quella è la freccia, nello zen. Il momento in cui dimostrarsi contemporanei anche se, come diceva Agamben, essere contemporanei è come presentarsi puntuali a un appuntamento a cui si arriverà comunque in ritardo.

La sceneggiatura non deve corrispondere necessariamente alla sua definizione americana, può essere un racconto o un disegno, come faceva Federico Fellini. La costruzione di una sceneggiatura è un lavorio carsico di stratificazione geologica, che rimanda inesorabilmente al proprio giacimento interiore, è impossibile e assurdo cercare di rinchiuderlo in una forma prestabilita. Il cinema si è sempre confrontato con l’architettura, creando spazi che si mostrano come interni su interni, si basti pensare al cinema Hitchcock con La finestra sul cortile (1954) o di Kubrick – che non a caso diceva "If it can be written, or thought, it can be filmed". È fondamentale che lo spazio conservi la storia. Le città sullo schermo, infatti, non sono città virtuali, quanto – per dirla con Bruno Taut e Hermann Finsterlin – città di vetro, fino a diventare – nell’opera di Cronenberg o Lynch – spazi sognati, liquidi, impossibili da spiegare.

In Morte di un matematico napoletano (1993)dato che il film era ambientato nella Napoli del ’59 e non c’erano i fondi per un film in costume, camminando insieme a Luca Bigazzi, Martone ha letteralmente ritagliato da Napoli tutti gli scorci rimasti negli anni ’50 e che oggi ormai sembrano essersi dissolti. Anche il documentario Nella città barocca (1984), commissionato da Nicola Spinosa per la grande mostra sul ‘600 napoletano, rappresenta un lavoro di ritaglio sulla città. Ogni film, afferma Martone, ha la sua mappa, per esempio quella dell’Amore molesto (1995) esclude completamente il centro di Napoli, mentre Teatro di guerra (1998) ha una dimensione concentrica. Il dialogo si chiude con una riflessione sullo scarto del reale nel set e nella messa in scena, di come sia difficilissimo sporcare il cinema, di come solo Sokurov nel Faust (2011) ci sia riuscito, per poi concludere con un’altra nota del breviario di Bresson: “Bisogna essere scrupolosi, respingere dal reale tutto ciò che non diventa vero.

 

Uscito su Recencinema