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So Much More than the Sum of its Tropes. A narrative exhibition

 

La mostra, curata da Gianluigi Ricuperati con la collaborazione di Elisa Troiano (Cripta 747), riflette sul rapporto tra linguaggio e forma. “So much more than the sum of its tropes”, è il modo in cui lo scrittore Jo Walton definì il capolavoro di Theodore Sturgeon Cristalli Sognanti (Adelphi, 1997). Tropo, dal greco trópos, derivato da trépo, “trasferisco”. Un tropo è una traslazione o deviazione di significato, essenzialmente una figura retorica. Un tropo infatti è una metafora, ma è anche una sineddoche, una litote, un’iperbole (e molte altre figure retoriche); nella teoria musicale antica "tropo" è anche la trasposizione di una scala dal modo originario a un altro, e nella musica medievale l'inserzione di una melodia con un testo originale in un brano liturgico ufficiale, l'inserzione di un testo su una melodia preesistente, e il meccanismo sviluppato dalla mostra è soprattutto quest’ultimo. So Much More than the Sum of its Tropes è qualcosa di più delle sue parti, cerca di creare un dialogo tra attitudini e discipline diverse, ma rimanendo strettamente legata dalla sua matrice narrativa primaria e specifica: i Cristalli Sognanti.

All'interno della Galleria Norma Mangione le opere d’arte ci si offrono negli angoli. A terra, la parabola di Michael E. Smith infilata in una federa bianca sembra un preservativo usato e parla di un rifiuto diventato intimità. Sopra di lei una manina sgonfia (Raphael Danke, “Ego”), disossata, dimostra che il cemento tanto caro al brutalismo può essere il materiale più morbido possibile, basta averne la memoria percettiva, sfiorare l’impronta di una foglia sul muro di Tadao Ando al Vitra. Appoggiata alla parete opposta, la lastra di Fabian Marti sembra un tappeto sotto vetro, un tappeto pieno di polvere e peli. Il total black così disturbato e nasce da un lavoro d’impressione su carta fotografica. Poi ci sono le ripetizioni del romanzo in lingue diverse, ogni edizione del libro ha un tautologico cristallo incastonato in copertina, che ci fa sospettare della fantasia spazio-temporale dell’editoria intera. Le pagine incise, recise e ritagliate in modo geometrico da Elisa Sighicelli estrudono la storia narrata nel libro, o è il disegno del cristallo a generare un cristallo vero, una pietra, un prisma, una goccia posticcia come le applicazioni di plastica nei maglioni anni Cinquanta di mia nonna. Così il diamante tondo sull’edizione francese ci fa leggere parole diverse a seconda dell’angolazione da cui lo osserviamo. Per me ingrandisce: très très très très important mot à mot, le parole si mescolano, come sotto atropina. Aff ffirma d’un ton. Zena. Hort. Coucher. La parola si scompone in forma, così come nell’opera di Enzo Mari. Vita, istruzioni per l’uso, di George Perec, diventa per questa edizione speciale del 2009 (Bur, ed. 272/660) un puzzle sfogliabile, che all’inizio nessuno si attenta ad aprire. Il significato salta da una trasposizione all’altra: l’architettura ispira la narrazione che ritorna forma, in una relazione che si crea e si distrugge di volta in volta creando fessure interpretative e la curiosità di sfogliare, di andare alla ricerca di un altro significato ancora, di un altro mondo o linguaggio possibile, proprio sotto gli occhi di Perec, che ci scruta dalla mensola trasparente creata da Richard Wentworth e 6a Architects per LUMA Foundation, irraggiungibile.

Una signora vuole comprare la colonna al centro della stanza, dove scorre a spirale il testo del curatore. Purtroppo non si può, ma il pezzo di Nucleo (“Extroflexed Crystal”) potrebbe fare al caso suo: una struttura verticale stampata in 3D e ricoperta da cristalli appositamente coltivati.  La prima opera nata in via xxx – dice scherzando Piergiorgio Robinio, a cui per il momento hanno chiuso l’atelier per "Troppa Sperimentazione", neanche fossimo in un racconto di Buzzati. I disegni floreali di Antonia Carrara nascono da disegni preparatori di cazzetti che dopo aver ispirato la natura svaniscono, fissandosi soltanto sul foglio a righe. Per quanto riguarda le due sedie di Patricia Urquiola, invece, beh, sono molto comode, e uniche. Ricordatevele perché sono fondamentali all’economia di questa storia.

Le opere diventano luoghi figurati evocando l’immaginario invocato dalla storia di Sturgeon, non sono univoche, si sciolgono e si rispecchiano nell’atmosfera instabile del libro, procedendo per intuizioni, ma senza mai distaccarsi dalla logica della trama. “Gli artisti devono superare il terrore di essere didascalici”, dice Ricuperati, “Mi sono dovuto imporre per ottenere delle visite guidate della mostra, perché alcuni si erano opposti”. Le persone invece sono curiose di sapere, di capire quello che sospettano, di abbandonarsi alla sospensione d’incredulità e di confrontare le loro impressioni ottenendo da queste intersezioni significati più sottili e ampi, e questo lo dimostra la grande affluenza all’apertura. Come si legge sulla colonna: "You must continue spinning if you want to understand. What would happen? This is the question".

Interessante è la discrepanza temporale tra il passato del tempo letterario e l’immantinenza della visione dell’opera d’arte, che si brucia tutta nel qui e ora. La disposizione nello spazio della galleria procede per distici. Ogni opera ha un suo doppio, apparentemente non-uguale, dato dalla distorsione del riflesso, a ogni riproduzione della copia si aggiungono piccole imperfezioni che sommandosi creano qualcosa di completamente diverso. Questo il prezzo – il more a cui si fa riferimento nel titolo – del passaggio da una disciplina all’altra, da una dimensione all’altra, la dimensione dei cristalli e quella degli esseri umani. Gli artisti diventano mercanti di insicurezza, e noi continuiamo a girare e girare in tondo fino alla nausea, a rimbalzare da una superficie all'altra, in cerca di comprensione. En quête. Ma come si arriva alla (o a una) fine? In questo caso c’è solo una cosa da fare, sedersi e fare quella cosa che la natura – cristalli compresi – ci invidia: leggere.

 

Uscito su Flash Art Italia..