I grandi artisti a volte non fanno che ripetere sempre lo stesso di film, altre volte, invece, esplorano generi completamente diversi. A quanto pare Daniele Ciprì dimostra di appartenere a questa seconda categoria. Ossessionato dal suo simulacro, rimane disperatamente fedele a se stesso, pur declinandosi in tante forme diverse, quante ne offre la possibilità, o nel nostro caso la storia del cinema. Come fosse una sfida, un esercizio d’identità o un cambio d’abito.
Come succede a molti scrittori che parlano coi loro animali delle loro idee, a Ciprì la storia l’ha suggerita il suo cane, Ugo. “Internazionale”, il bastardino che affianca Armando appena esce dal carcere, diventa così un deus ex machina, il motore narrativo degli eventi.
La Buca è un film semplice e dolce. Ad alcuni piacerà, probabilmente a quelli che non si sono mai avvicinati al regista; altri, gli affezionati, forse si annoieranno, alzeranno le spalle o si indigneranno. Succede, non si può piacere a tutti quando si sceglie. Girato in pellicola, questo film fa eco alle grandi commedie classiche americane, che mettono in scena con leggerezza temi cardine come l’amore, l’amicizia e il tradimento e – come ci tiene a specificare – Ciprì, non vuole farci ridere, ma sorridere, anche se è pieno di lazzi. Certo, rimangono le luci e le ombre che modellano la scena in modo scultoreo e caravaggesco – potremmo dire la cifra stilistica di questo regista che è in realtà uno dei più grandi direttori della fotografia del nostro paese – così come rimane il tema dell’ingiustizia: Armando, che ha subito una pena per un reato che non ha commesso, potrebbe facilmente essere “il figlio” del suo precedente lavoro. Ma non c’è più traccia di quel cinismo sardonico così siciliano: al suo posto troviamo invece, sul tartan dei bellissimi costumi di Grazia Colombini, una polvere di leggera malinconia. La storia fluttua in un mondo senza coordinate geografiche e storiche, un mondo tra parentesi, composto da ricordi scenografici: la Londra dell’Ottocento, la New York degli anni Cinquanta, la periferia modernista che fa da sfondo ai film di Fellini e di Antonioni. Ciprì preferisce chiamarle evocazioni, piuttosto che citazioni, e ridisegna così la sua realtà narrativa anche graficamente, andando a resuscitare immaginari che appartengono al grande cinema: in primis a Hitchcock, Wilder, Capra, ma anche a Scola, Risi e Monicelli. Crea personaggi concreti che immerge in un mondo vago, ed è proprio questo tentativo che regala una sfumatura mitica alla commedia, che potrebbe essere un sogno o una favola, dove però manca l’antagonista. Non ci si riesce ad arrabbiare con nessuno: né con Oscar, avvocato truffaldino, né con il medico-veterinario corrotto, né con i giudici distratti durante il processo da un'immaginaria finale di calcio. Non muore nessuno “realmente”, proprio come succede nei cartoni animati. Sembra che il bene e il male, in fondo, siano la stessa cosa, che il primo non possa manifestarsi senza il secondo, così come le grandi coppie di comici a cui Ciprì si è ispirato.
Uscito su Recencinema.