Questo film non è un'opera biografica, anche se sul trailer campeggia la scritta “Tratto dalla storia vera” e si potrebbe pensare ispirato a Confesso che ho vissuto – memoir in cui il poeta racconta come ha fatto a fuggire dal Cile. Questo film non parla di Neruda, questo film è Neruda e ha due protagonisti: la Politica e la Poesia. È sì un affresco del Cile degli anni '40, della sua classe dirigente corrotta, festaiola e lamentosa, che risolve tutto in alegria alegria, ma è soprattutto un film sulla scrittura, non è un film per coloro che hanno girato il mondo e sono tornati a casa felici, ma per quelli che hanno attraversato le Ande per non tornare più. No. Sì.
Uno dei meccanismi linguistici su cui si struttura tutta la pellicola, uno scarto, un bivio cognitivo, un cambio di scenario emotivo. “Conosce Neruda?” chiede Videla all’ispettore che dovrà inseguirlo, Peluchonneau. Risposta: "No. Sì". Fino ad arrivare al termine, in cui le parti come da tradizione si invertono, la narrazione si ribalta. “Bisogna sempre avere un piano meraviglioso”. Così tra le valli innevate, per l’unica volta, cacciatore e preda si parlano: “La mia voce cercava il vento per raggiungere il suo orecchio” – come nella conosciutissima poesia che il poeta è costretto a ripetere a pappagallo per far contento il pubblico, “Posso scrivere i versi più tristi questa notte”.
Neruda è un poeta, e in quanto poeta è un pericolo pubblico, ma Neruda è un intellettuale e un personaggio politico solo apparentemente, perché Neruda è la Poesia e si riconosce perché ogni tanto ha ancora il ricordo del gelo, abita una dimensione altra, è una promessa, una favola, qualcosa a cui tendere e da cui lasciarsi sfiorare, qualcosa che non si può trattenere; fa sognare, sorridere, piangere, e in questo continuo suo muoversi, scapparci, crea il mondo. Nella poesia il popolo crede e neanche la vergogna gli impedisce di farlo. Per questo decide di fuggire. Perché la poesia non può stare chiusa in casa, così le passa anche la voglia di fare l'amore. Deve travestirsi, deve sedurre i suoi persecutori. In questa storia cilena il male sembra esistere solo come resto del bene, la Storia è scritta dalla fantasia. La Poesia no llora, non piange.
Poi c'è Peluchonneau, splendido, fallito in quanto già intimamente minato, crepato in due, fragilissimo personaggio di carta e allo stesso tempo resistente come un maratoneta, come Pavese sotto la pioggia, come tutti gli “eroi” del noir. Resiste. Deciso a guadagnarsi un ruolo nella storia – con o senza maiuscola – deciso a diventare reale ed eterno come la donna amante – lei sì che lo è, non è semplicemente una creazione della parola del poeta, anzi, ne è proprio la fonte, perché lei è da molto prima, comprende tutto col suo amore, anche il rimanere indietro, anche l’essere abbandonata, dire d’accordo, togliersi gli orecchini, cambiarsi per rimanere a casa. Capisce che quella non è la sua fuga, che quella è una fuga astratta, e una donna cilena non potrà mai esserlo, lo capisce, ma vede solo cavalli rossi. Peluchonneau, invece, si rifiuta di essere il personaggio secondario, destinato a rimanere figlio di nessuno – peggio, di una puttana – antagonista, alter ego del protagonista. Solo quando accetterà il suo limite come non-limite, guadagnerà la sua esistenza; solo quando si lascerà abbracciare senza dimenarsi nel ruolo che gli è stato cucito addosso, “Poeta ti amo”, nella sua camicia di forza narrativa e sociale; quando si lascerà cingere dalla poesia, “In questo momento l’unica cosa che chiedo è che mi abbracci”, dalla poesia dei vinti, solo così smetterà di essere un perdente e morirà da eroe, di una morte bianca, innevata, nel freddo, arrendendosi alla poesia come solo uno spirito grande e umano saprebbe fare. La poesia, da allora, parlerà anche per lui, riconoscendogli la sua eternità: dirà il suo nome.
Uscito su Recencinema.