In ordine di sparizione

In ordine di sparizione, Hans Petter Moland (2013)

 

Neve e schiuma da barba. Nils è il taciturno autista dello spazzaneve che mantiene sgombre le strade a bassa percorrenza e aperti i passi di montagna. Il paesaggio è quello buio e inospitale della Norvegia, ma Nils, con stoica determinazione, continua a fare ogni giorno il suo dovere, tanto da essere nominato cittadino dell’anno. Il mattino dopo la cerimonia, però, riceve la notizia della morte del figlio. Overdose. Rifiutandosi di credere alla versione della polizia, dopo un goffo tentativo di suicidio, inizia a indagare autonomamente. Finisce così per diventare un insospettabile giustiziere in un mondo surreale di gangster.

In ordine di sparizione è un film strano, una black comedy travestita da thriller, che con un progressivo spostamento dell’asticella si svela, si spoglia, si pulisce dal belletto che la confondeva all’inizio, si trasforma in qualcosa di diverso ancora, forse in un action movie. Così come all’inizio del film Nils, il protagonista, con un ammiccante riferimento alla neve che copre il suo mondo, libera il viso dalla schiuma da barba, tagliandosi. Fortunatamente è la moglie che lo aiuta a vestirsi. In barba a quel che si chiama in gergo “il viaggio dell’eroe”, nessun personaggio qui compie un’evoluzione, al più muore o sparisce. Questo è un film di forma, che parla diverse lingue, articolandole con molte trovate degne di quei fratelli Coen di cui ormai ci siamo dimenticati, ma anche del buon vecchio Lynch o di Tarantino. I lunghi discorsi in macchina tra i killer non possono che ricordarci quelli tra Vincent Vega e Jules Winnfield (ma meno cool, perché Oslo non è Los Angeles e “il benessere si paga col maltempo”), così come il funzionario del partito, che spunta all’improvviso in mezzo al nulla cercando di fare proseliti tra le montagne, non può che farci tornare in mente certe scene di Fargo. In questo film, però, i personaggi non hanno personalità, così come spiegava Wolf alla figlia dello sfasciacarrozze in Pulp fiction“Because you are a character doesn’t mean you have character”. Ognuno, testardo, ripete la propria azione fino alle estreme conseguenze. La ripetizione di un gesto, l’inversione dei ruoli, la progressione strutturale degli equivoci contribuisce a creare il comico. Il film ci offre un’articolazione palesemente meccanica degli eventi, ogni personaggio fa quello che deve fare e questo lo rende ridicolo, perché rigido, perché inadattabile, pur mantenendo una patina di verosimiglianza, che scimmiotta l’agilità della vita. Questa è la base di qualsiasi commedia. D'altronde il titolo originale è Kraftidioten, che in italiano sarebbe traducibile in “imbecilli”, o “deficentoni”, o se non ci fosse già stato Scemo più scemo. Guarda caso, nel film, i personaggi che muovono l’azione sono tutti uomini. Le donne sono soltanto tre: una sparisce, le altre due non vengono mai ascoltate, tutte e tre biasimano i loro compagni. Tuttavia costruire una pellicola con il linguaggio dei Coen non assicura come risultato finale una pellicola dei Coen.

 

Uscito su Recencinema.