Poesia come passaggio

Prefazione ad Anello di prova (Raffaelli Editore, 2016)

 

    See, now they vanish, 
    the faces and places, with the self which, as it could, loved them, 
    to become renewed, transfigured, in another pattern. 

        —T.S. Eliot

 

    Poiché la vita fugge
    e chi tenta di ricacciarla indietro
    rientra nel gomitolo primigenio
    dove potremo occultare, se tentiamo
    con rudimenti o peggio di sopravvivere,
    gli oggetti che ci parvero
    non peritura parte di noi stessi?

        —Eugenio Montale

 

Secondo il poeta americano Stanley Kunitz, la poesia è il passaggio dell’anima nella valle della vita, nella storia—ora schiavitù ora libertà, rubando le punte del compasso a T.S. Eliot. A questa ‘idea’, a questo ‘senso’ di poesia, ho subito pensato leggendo Anello di prova di Lucia Brandoli

I suoi testi sono davvero dei passaggi: anelli che tengono, dandone prova, una credibile catena di testimonianza. Con la sola eccezione di Ora—una telegrafica, epigrammatica spiegazione-rassicurazione-denuncia (“sono salva e vuota./ Salva e vuota”), pit stop fuori dal tempo e dallo spazio con cui si chiude la parte più corposa del libro, seguita da un post scriptum di liriche nuove—tutte le poesie qui raccolte sono accompagnate in calce da precise indicazioni topografiche e cronologiche, a volte anche ‘doppiate’. L’autrice sembra volerci ricordare, con Montale, che “occorrono troppe vite per farne una”: che l’unica nostra condizione permanente è di esuli itineranti; che non si finisce mai di conoscere, di capire, di imparare; che il valore della vita—e della poesia come esercizio di vita, sospesa tra commento, promessa, denuncia, testamento—sta proprio nella consapevolezza e nell’accettazione che tutto ciò che ci circonda altro non è che un passaggio di passaggi. 

Non sorprende quindi che la poesia che dà il via a una serrata serie di transizioni sia intitolata Altro e si snodi come un catalogo di propositi d’acquisto: ‘pezzi’ di esistenza scanditi con una precisione di volontà e con un’intensità d’intenti che sembra preludere, sfiorandola, a un’ingordigia esistenziale e che si arresta invece con un altrettanto deciso colpo di coda, temporaneamente acquiesciuta (“Nient’altro, grazie./ Per oggi basta così”). 

Attraverso un alternarsi di partenze, arrivi e ripartenze, letterali e metaforiche, ci si sente ospiti di una visione onirica in cui si compie quello che l’autrice definisce “una morte distratta”. Le fattezze e i metabolismi di questa ‘destinazione’ sono però troppo vere e troppo vicine per essere solo sognate. Nel carnevale della collettività caro a Bachtin, infatti, è in gioco e si sconta la nostra cifra individuale, sbattuta senza spiegazioni e senza scuse tra domande e risposte (spesso non pervenute); tra presenze e assenze; tra desideri e rimorsi; tra colpe e assoluzioni.

Questo scarto, però, è da sempre terreno fertile per una meditazione sincera—e quindi selfless—su quella che Heaney ha definito “la musica di ciò che accade”. Una riflessione allo stempo intimamente tirannica (“Sono qui e tu sei là”; “Non posso essere tua madre”) e generosamente democratica (“Stanotte ti ho sognato”; “quando ti è sceso il cuore nella pancia/ e io lo sentivo tutto che batteva”). Un suspension of disbelief che non è un’arresa irrazionale isolante bensì empatia mitopoietica in grado di abbracciare e fondere il proprio sé con quello altrui, di spingere l’io nel noi—come una pioggia che “lava tutto” (“La pioggia cade e io/ non è che sia arrabbiata,/ ma solo preoccupata/ perché ti bagnerai”).  

Le pietre di passo di questo viaggio in versi—una volta intraprese e investite della fiducia e della promessa di una direzione—si susseguono come grani di un rosario e si traducono in una mappa preziosa, sì, ma mai scontata, mai uguale a se stessa, mai stabile, mai completamente affidabile. Biglietti dice tanto dei luoghi geografici, fisici e mentali ai quali l’autrice affida pensieri e sentimenti: spazi che “rimangono/ come i nomi sui libri/ incastrati nel posto/ impassibili e vacui, immobili/ sotto un cielo di terze/ pagine strappate con cura”. 

Ogni passaggio in questo libro lascia effettivamente la sensazione che si sia compiuto uno strappo e che altri strappi possano presto compiersi: cerchi concentrici innescati dalla pietra di un’anima sensibile, attenta e reattiva che non si accontenta della superficie delle cose. L’autrice impugna la parola agisce con la forza e la precisione di un micidiale scalpello: rimosso il silicone della superficialità (“attenta a non concentrare/ il contenuto in superficie”) e dispersa la nebbia della banalità (“Amo tutte/ le cose brutte, che hanno sopportato,/ che hanno imparato a reggere/ l’imbarazzo del mezzo, circondate”), è possibile pensare di cercare l’essenza delle cose. A piccole dosi. A sprazzi. Anche alle cieca. Anche senza ricompense. Mettendo sotto scrutinio lo strumento stesso che documenta questa ricerca: la lingua. Ecco allora i versi in dialetto ravarinese di Al Siribèc, di una bellezza e di una potenza tanto semplici quanto profonde e illuminanti, come un improvviso temporale estivo che rinfresca e rinnova. 

Per quanto temporanee—a volte anche ingiuste, altre volte dolorose, altre volte ancora addirittura cattive—le epifanie raccontate dall’autrice sono rivelazioni necessarie a smascherare il bluff della vita, a sollevare la coltre di allucinazioni che la lotta continua del sopravvivere quotidiano ispessisce di ora in ora. 

Tra le scorie di questo percorso poetico, che dà sfogo a un processo di vera e propria disintossicazione, si intravedono non soltanto i colori dello spirto gentil che narra ma anche quelli di chi sceglie o capita di essere in suo ascolto. E non si pensi a petrarchesche promesse bensì a uno scontro sensuale con i meccanismi del mondo—un odi et amo, un fieri sentio et excrucior che trovano tregua sulla pagina. 

Questa raccolta propone quindi perimetri e parametri che nella loro ordinaria universalità, sommessa come urlata, fanno subito presa: da quello che sembra, e forse è davvero, déjà vu, anche il lettore più resistente al balsamo della poesia può trarre, se non conforto e orientamento, almeno un rinnovato senso di possibilità e di speranza. Il prezzo da pagare per questo dono, pero, è alto, soprattutto per l’autrice che di questa possibilità e di questa speranza è madre generosa (“Sarà tutto quell’essere/ e andare, e agire, caro”). 

È comprensibile quindi che prendano piede dubbio e paura. Ma Lucia Brandoli non si tira indietro. Accetta e confida apertis verbis la propria vulnerabilità: segno di un’intelligenza e di una maturità già solide. Quando dice di non avere mai tempo per le proprie ansie (“Non c’è mai tempo per le mie ansie”) dobbiamo dunque crederle e darle un po’ del nostro tempo: leggendola e ascoltandola. La sua ansia sarà la nostra ma grazie ai suoi versi potremo trovarci più vicini al silenzio della verità (“a tutto ciò che dice/ senza saper parlare”). 

 

Marco Sonzogni

Brisbane

from Try Track (Anello di prova, Raffaelli Editore 2016)

by Lucia Brandoli

 

You told me that men laugh in four tempos,

in simple tempos, that men, all of them,

are like basketballs – and you’re right, indeed

– and women are like soccer-balls. And if

you pay attention

they laugh in three, indeed,

breathless, discarding, losing

ground under their feet.

 

And these days I feel like a tennis-ball

on a football table–motionless, yellow

and totally uncomfortable. Like at the Monk,

where nobody wants

to play tennis-table

for fear

of loosing or ruin his status around

a Burberry trench

with so much strain

built up. And then

I wonder why

the hell he get

the socialist badge.

 

Rome today, Brisbane tomorrow.

Eight hours after, eight hours before,

together, it’s no big deal:

two months are not ages,

neither a year.

It’s winter even there, but only at night,

while you piss outside

at three in the morning

in your pajama

looking at Three

Sisters.

 

A special thanks to Federica Bacchelli

"Il sogno (Rosa)" da Zebra Skin di James Roy Blair Anderson

 

È cresciuta in Europa, in Riviera

dove le ragazze in prendisole si radunavano per la città.

Non ho mai dimenticato la prima volta che la vidi

con gli occhiali da sole rosa,

stupenda sotto il sole d’estate e gli occhi incorniciati;

il fascino di un viso perfetto sotto al velo da sposa.

Camicetta bianca, capelli biondi,

lenti rosa, montatura nera,

lenti fumé, montatura tigrata,

gonna nera, gambe nude.

Stringeva sigarette tra gli anelli di diamanti,

attraversava le notti su una Ford Capri bianca,

mentre diceva “Tesoro, dimmi che non mi lascerai mai.

Se tu sei la mia gazza, io sarò la tua monetina d'oro.

Possiamo andare dove ci pare, ovunque, ovunque liberi.”

S’infila gli occhiali da sole e vede il mondo che immagina;

qualche spiaggia esotica, con l’acqua azzurra azzurra e la sabbia bianca,

o quella città di amanti, artisti e persone che contavano

nel cinema.

Accendendo sigarette rollate su divani di velluto,

sbattendo anfore di vino vicino alle statue di bronzo,

soffiando via carte da gioco dai colli di bottiglia.

Le ceramiche italiane ci osservavano appese ai muri.

La storia non ha mai saputo che stavamo arrivando.

Respirando sapori di vecchie credenze di Malt Whiskey. 

“Apri quelle portiere ad ala di gabbiano, piccola,

non mi hai mai detto che ti mancavo,”

ci siamo solo noi due e il sole, il patrono splendente della città.

Ho detto “Ti va di andare all’opera?”

alla sera avremmo ondeggiato

per i bar a sentir cantare,

tu fai e io sto,

ho uno di quei tuoi rantoli che mi attraversa ancora.

Piccola, tu sei stata una persona importante sotto ogni aspetto.

Avevi quella voce che avrebbe fatto diventare estate la primavera

e mettevi insieme parole che io non avrei mai pensato potessero comporre versi.

Ti ricordi quando ci baciammo nella piscina, quell’estate?

Con le luci del giardino che ci danzavano intorno, nell’acqua?

L’intimità nella tua stanza non è mai stata così bella

quanto ci avevano suggerito le aspettative.

L’amore non ci ha mai raggiunti.

“Togliti gli occhiali, tesoro,

resta qui questa notte.”

I baci nella tua stanza erano la cosa più dolce che si poteva trovare sotto la Luna.

Quella vena argentata, lapislazzuli, arrivando dalla finestra

era l’unico lenzuolo a coprirci.

L’alba del lampadario.

Santo dio, piccola.

Nuotavi in cerchio nella piscina

come se vivessi libera.

Come un bambino nasconde un sorriso dietro a un fiore.

E poi, sperando di essere vista,

lasciavi di tanto in tanto che i tuoi occhi si rivelassero,

fantasticavi attraverso i tuoi occhiali rosa.

 

 

Cinema & Architettura. Mario Martone a NABA

 

Milano, 2 aprile 2014. Sui tetti della Galleria Sozzani, Gianluigi Ricuperati, direttore di Domus Academy, insieme a Italo Rota e a Margherita Palli, ha aperto la conversazione con Mario Martone citando una frase di Robert Bresson, tratta dalle Note sul cinematografo (Marsilio, 2001): “Il tuo pubblico non è il pubblico delle librerie, né quello degli spettacoli, o delle esposizioni o dei concerti. Tu non hai soddisfare il tuo gusto letterario, né quello teatrale, o pittorico o musicale.” Questo passo funge da viatico per entrare nel tema della serata: la relazione nell’opera di Martone tra diverse forme espressive. La formazione di questo regista è infatti fin dagli inizi multidisciplinare. Il suo lavoro viene alimentato da una curiosità ossessiva e ricorsiva nei confronti delle realtà artistiche che si svilupparono tra la Roma e la Napoli degli anni ’70, soprattutto del mondo delle gallerie e del cosiddetto “teatro di cantina”. Le sue prime esperienze sono installazioni a metà tra la performance artistica, l’invenzione scenografica e il teatro. Se non avesse fatto il regista, Mario Martone, sarebbe diventato probabilmente architetto. La regia per lui è spazio e corpo, prima ancora di essere narrazione. Dove si trova quindi il teatro? Nel rapporto tra lo spazio e gli spettatori, che così lo vivono insieme agli attori. Questa concezione spaziale della narrazione emergerà anche nel Così fan tutte, nato dalla collaborazione con il Maestro Claudio Abbado nel 2000. I cantanti andavano letteralmente incontro al pubblico, attraversavano la platea, si insinuavano in uno spazio che prima non era mai stato dedicato a loro.

Quella da cui ha iniziato Martone era un’arte povera, che non aveva bisogno di (quasi) nulla. Un’arte fatta di luce, che andava alla ricerca della relazione tra il corpo – diventato ombra – e lo spazio. L’architettura, infatti, non è una questione visiva, ma è qualcosa che ha a che fare con la percezione, con il flusso della vita. È un iperspazio. Così come il cinema non è una disciplina statica, ma un processo artistico in divenire, in continua interazione con il tempo. Le loro opere si dibattono in un’idea progettuale che deve farsi realtà. La preparazione del film è come il tendersi dell’arco nello zen. È il momento più disciplinato del lavoro, perché è il momento in cui bisogna mirare. Un film non inizia mai il primo giorno di riprese, inizia molto prima. È la continua ricerca di qualcosa che hai visto, dove l’orientamento è dato dalla sceneggiatura che diventa a tutti gli effetti una mappa. Una delle difficoltà maggiori è poi riuscire a tenere in vita le proprie visioni per anni, fino alla data dell’appuntamento, dove ci si giocherà il tutto per tutto. E quella è la freccia, nello zen. Il momento in cui dimostrarsi contemporanei anche se, come diceva Agamben, essere contemporanei è come presentarsi puntuali a un appuntamento a cui si arriverà comunque in ritardo.

La sceneggiatura non deve corrispondere necessariamente alla sua definizione americana, può essere un racconto o un disegno, come faceva Federico Fellini. La costruzione di una sceneggiatura è un lavorio carsico di stratificazione geologica, che rimanda inesorabilmente al proprio giacimento interiore, è impossibile e assurdo cercare di rinchiuderlo in una forma prestabilita. Il cinema si è sempre confrontato con l’architettura, creando spazi che si mostrano come interni su interni, si basti pensare al cinema Hitchcock con La finestra sul cortile (1954) o di Kubrick – che non a caso diceva "If it can be written, or thought, it can be filmed". È fondamentale che lo spazio conservi la storia. Le città sullo schermo, infatti, non sono città virtuali, quanto – per dirla con Bruno Taut e Hermann Finsterlin – città di vetro, fino a diventare – nell’opera di Cronenberg o Lynch – spazi sognati, liquidi, impossibili da spiegare.

In Morte di un matematico napoletano (1993)dato che il film era ambientato nella Napoli del ’59 e non c’erano i fondi per un film in costume, camminando insieme a Luca Bigazzi, Martone ha letteralmente ritagliato da Napoli tutti gli scorci rimasti negli anni ’50 e che oggi ormai sembrano essersi dissolti. Anche il documentario Nella città barocca (1984), commissionato da Nicola Spinosa per la grande mostra sul ‘600 napoletano, rappresenta un lavoro di ritaglio sulla città. Ogni film, afferma Martone, ha la sua mappa, per esempio quella dell’Amore molesto (1995) esclude completamente il centro di Napoli, mentre Teatro di guerra (1998) ha una dimensione concentrica. Il dialogo si chiude con una riflessione sullo scarto del reale nel set e nella messa in scena, di come sia difficilissimo sporcare il cinema, di come solo Sokurov nel Faust (2011) ci sia riuscito, per poi concludere con un’altra nota del breviario di Bresson: “Bisogna essere scrupolosi, respingere dal reale tutto ciò che non diventa vero.

 

Uscito su Recencinema

 

Molière in bicicletta, Philippe Le Guay (2013)

 

Serge (Fabrice Luchini) – disgustato dagli esseri umani in genere e in particolare da quelli che battono il palcoscenico – si è ritirato in una casetta su l’Île de Ré. Isolamento che viene interrotto dopo tre anni dall’ex-discepolo Gauthier Valence (Lambert Wilson), che nel frattempo – e suo malgrado – è diventato una star televisiva molto amata dal pubblico. Gauthier l’ha raggiunto per proporgli una parte nel Misantropo di Molière. Serge dà per scontato che sia la parte di Alceste, ma quella che gli viene offerta è quella di Philinte. Allora Serge, sperando di ottenere quello che vuole – ma che apparentemente non ha la minima intenzione di tornare a teatro – procrastina e propone a Gauthier di provare per otto giorni la pièce, alternando i ruoli. La sfida ha inizio. Attorno al loro gioco c’è soltanto l’isola, un’italiana affascinante e cinica (Maya Sansa), un agente immobiliare petulante, una pornodiva ingenua e una manciata di paesani. Ben presto tutti, assecondati da quel tempo parallelo, si convincono che lo spettacolo verrà davvero messo in scena.

Molière in bicicletta è una commedia riuscita, ben scritta, di quelle che i francesi sanno ancora fare. Mentre la storia si dipana emergono le stesse dinamiche che muovevano la società che forniva materiale per scrivere a Molière: invidia, egoismo, seduzione, orgoglio, lealtà, superbia e tanto altro. Serge crede di essere tra i lupi, ma è lupo anch’esso appena ne ha l'occasione. Gauthier, invece, è il falso filantropo, il filantropo d’abitudine, che ha bisogno di essere amato, non importa da chi, non importa come. La vita, sulla scena e sull’isola, è un gioco grottesco, che sembra inevitabilmente dipendere dal ruolo che si interpreta, ma il sottotesto di questa storia – basato sul continuo e totalizzante gioco delle parti – è proprio il contrario: non importa che personaggio interpreti, le conseguenze saranno le stesse. Durante la settimana di prova che Serge e Gauthier si concedono per decidere le sorti dello spettacolo, infatti, è la sorte a decidere.

Ma questo è anche un film su allievi e maestri, giochi di potere intellettuale e indipendenza artistica, è una sfida a colpi incalzanti di metro, di sillabe, di accento e di battuta. Una giostra che ci porta a scoprire che i due attori, i due amici, alla fine sono lo stesso personaggio, e forse è proprio per questo che non possono stare insieme. Serge, l’amante del verso alessandrino classico, rimarrà sulla sua isola dopo essersi confrontato coi lupi; Gauthier entrerà in scena come Alceste, ma senza riuscire a superare il lapsus che l’aveva sempre colto durante le prove. A quel punto si fermerà, rendendosi conto che i due personaggi si sono finalmente fusi, hanno coperto la distanza che separa l'effroyable dall'incroyable, lo spaventoso dall’indicibile.

 

Uscito su Recencinema.

 

La buca, Daniele Ciprì (2014)

 

I grandi artisti a volte non fanno che ripetere sempre lo stesso di film, altre volte, invece, esplorano generi completamente diversi. A quanto pare Daniele Ciprì dimostra di appartenere a questa seconda categoria. Ossessionato dal suo simulacro, rimane disperatamente fedele a se stesso, pur declinandosi in tante forme diverse, quante ne offre la possibilità, o nel nostro caso la storia del cinema. Come fosse una sfida, un esercizio d’identità o un cambio d’abito.

Come succede a molti scrittori che parlano coi loro animali delle loro idee, a Ciprì la storia l’ha suggerita il suo cane, Ugo. “Internazionale”, il bastardino che affianca Armando appena esce dal carcere, diventa così un deus ex machina, il motore narrativo degli eventi. 

La Buca è un film semplice e dolce. Ad alcuni piacerà, probabilmente a quelli che non si sono mai avvicinati al regista; altri, gli affezionati, forse si annoieranno, alzeranno le spalle o si indigneranno. Succede, non si può piacere a tutti quando si sceglie. Girato in pellicola, questo film fa eco alle grandi commedie classiche americane, che mettono in scena con leggerezza temi cardine come l’amore, l’amicizia e il tradimento e – come ci tiene a specificare – Ciprì, non vuole farci ridere, ma sorridere, anche se è pieno di lazzi. Certo, rimangono le luci e le ombre che modellano la scena in modo scultoreo e caravaggesco – potremmo dire la cifra stilistica di questo regista che è in realtà uno dei più grandi direttori della fotografia del nostro paese – così come rimane il tema dell’ingiustizia: Armando, che ha subito una pena per un reato che non ha commesso, potrebbe facilmente essere “il figlio” del suo precedente lavoro. Ma non c’è più traccia di quel cinismo sardonico così siciliano: al suo posto troviamo invece, sul tartan dei bellissimi costumi di Grazia Colombini, una polvere di leggera malinconia. La storia fluttua in un mondo senza coordinate geografiche e storiche, un mondo tra parentesi, composto da ricordi scenografici: la Londra dell’Ottocento, la New York degli anni Cinquanta, la periferia modernista che fa da sfondo ai film di Fellini e di Antonioni. Ciprì preferisce chiamarle evocazioni, piuttosto che citazioni, e ridisegna così la sua realtà narrativa anche graficamente, andando a resuscitare immaginari che appartengono al grande cinema: in primis a HitchcockWilderCapra, ma anche a ScolaRisi e Monicelli. Crea personaggi concreti che immerge in un mondo vago, ed è proprio questo tentativo che regala una sfumatura mitica alla commedia, che potrebbe essere un sogno o una favola, dove però manca l’antagonista. Non ci si riesce ad arrabbiare con nessuno: né con Oscar, avvocato truffaldino, né con il medico-veterinario corrotto, né con i giudici distratti durante il processo da un'immaginaria finale di calcio. Non muore nessuno “realmente”, proprio come succede nei cartoni animati. Sembra che il bene e il male, in fondo, siano la stessa cosa, che il primo non possa manifestarsi senza il secondo, così come le grandi coppie di comici a cui Ciprì si è ispirato.

 

Uscito su Recencinema.

 

La scelta di Barbara, Christian Petzold (2012)

 

Il film di Christian Petzold La scelta di Barbara – vincitore nel 2012 dell'Orso d'Argento – ci racconta una vicenda che si svolge in un clima di sordido, accarezzato dalla luce apparentemente rassicurante della campagna, distante dal centro, dai confini dell’impero. Una storia di fiducia, più che d’amore; la storia di una donna – ma forse prima di tutto di un medico – che si ritrova di fronte a una scelta. Interessante è il punto di vista con cui il regista affronta il tema della Germania divisa e della vita sotto il regime. A differenza dei suoi predecessori, Petzold osserva la storia da una prospettiva intima, calda, rassicurante, quasi banale. La scelta di Barbara è un film delicato, come si dice è un film in levare, eppure è solido nel suo essere sospeso. Barbara vive in due stanze spoglie ed è controllata costantemente. L'unico segno della sua presenza in quella casa è il suo spartito sul pianoforte che ogni tanto suona. Barbara una donna imbronciata, e anche se sa che non dovrà rimanere il quel posto a lungo, si prende cura dei suoi giovani malati, fino a farsi coinvolgere emotivamente, fino a farli diventare storie che non può interrompere, fino a scegliere di liberare qualcuno per sentirsi libera.

Il regista evita la scelta facile di una luce livida come ovvia metafora dello stato di oppressione dei personaggi e immerge invece la vicenda in una natura semplice, spontanea, accogliente. L’atmosfera è quella accomodante e ventosa della campagna in estate, affacciata sul mare del Nord ed è proprio questo contrasto a portare in superficie le contraddizioni che permeano la vita di quel tempo e di quel luogo. La natura sembra diventare la promessa che lo Stato e la politica non possono concedere alle persone; il cesto di verdure offerte dai pazienti ai medici, l’illusione di un futuro prospero, anche se confinato. L’amore viene visto come una gabbia sicura in un mondo ingiusto, una serena rassegnazione, un rifugio. Un assoluto che si strappa all’irrimediabilità degli eventi storici. È forse però questa scelta originale a diventare la più grande debolezza del film: in campagna, nella normalità, diventa difficile far trasparire le forze che muovono gli esseri umani. La sceneggiatura sembra fluttuare senza mai penetrare in profondità, facendo uscire gli spettatori dalla sala soddisfatti della bella fotografia, ma forse non dell’intero film.

 

Uscito su Recencinema.

 

In ordine di sparizione, Hans Petter Moland (2013)

 

Neve e schiuma da barba. Nils è il taciturno autista dello spazzaneve che mantiene sgombre le strade a bassa percorrenza e aperti i passi di montagna. Il paesaggio è quello buio e inospitale della Norvegia, ma Nils, con stoica determinazione, continua a fare ogni giorno il suo dovere, tanto da essere nominato cittadino dell’anno. Il mattino dopo la cerimonia, però, riceve la notizia della morte del figlio. Overdose. Rifiutandosi di credere alla versione della polizia, dopo un goffo tentativo di suicidio, inizia a indagare autonomamente. Finisce così per diventare un insospettabile giustiziere in un mondo surreale di gangster.

In ordine di sparizione è un film strano, una black comedy travestita da thriller, che con un progressivo spostamento dell’asticella si svela, si spoglia, si pulisce dal belletto che la confondeva all’inizio, si trasforma in qualcosa di diverso ancora, forse in un action movie. Così come all’inizio del film Nils, il protagonista, con un ammiccante riferimento alla neve che copre il suo mondo, libera il viso dalla schiuma da barba, tagliandosi. Fortunatamente è la moglie che lo aiuta a vestirsi. In barba a quel che si chiama in gergo “il viaggio dell’eroe”, nessun personaggio qui compie un’evoluzione, al più muore o sparisce. Questo è un film di forma, che parla diverse lingue, articolandole con molte trovate degne di quei fratelli Coen di cui ormai ci siamo dimenticati, ma anche del buon vecchio Lynch o di Tarantino. I lunghi discorsi in macchina tra i killer non possono che ricordarci quelli tra Vincent Vega e Jules Winnfield (ma meno cool, perché Oslo non è Los Angeles e “il benessere si paga col maltempo”), così come il funzionario del partito, che spunta all’improvviso in mezzo al nulla cercando di fare proseliti tra le montagne, non può che farci tornare in mente certe scene di Fargo. In questo film, però, i personaggi non hanno personalità, così come spiegava Wolf alla figlia dello sfasciacarrozze in Pulp fiction“Because you are a character doesn’t mean you have character”. Ognuno, testardo, ripete la propria azione fino alle estreme conseguenze. La ripetizione di un gesto, l’inversione dei ruoli, la progressione strutturale degli equivoci contribuisce a creare il comico. Il film ci offre un’articolazione palesemente meccanica degli eventi, ogni personaggio fa quello che deve fare e questo lo rende ridicolo, perché rigido, perché inadattabile, pur mantenendo una patina di verosimiglianza, che scimmiotta l’agilità della vita. Questa è la base di qualsiasi commedia. D'altronde il titolo originale è Kraftidioten, che in italiano sarebbe traducibile in “imbecilli”, o “deficentoni”, o se non ci fosse già stato Scemo più scemo. Guarda caso, nel film, i personaggi che muovono l’azione sono tutti uomini. Le donne sono soltanto tre: una sparisce, le altre due non vengono mai ascoltate, tutte e tre biasimano i loro compagni. Tuttavia costruire una pellicola con il linguaggio dei Coen non assicura come risultato finale una pellicola dei Coen.

 

Uscito su Recencinema.

 

Le meraviglie, Alice Rohrwacher (2014)

 

Là c’è una casa!

Inizia con questo grido nella notte il film di Alice Rohrwacher, molto applaudito a Cannes, unico film italiano in concorso, apparentemente lieve ma dalla struttura solida, consolidata, quanto l’antico casale che la accoglie. Come scrive Alice Munro, "Il racconto è una casa. Ci entri e ci rimani per un po’, andando avanti e indietro e sistemandoti dove ti pare, scoprendo i rapporti tra camere e corridoio, scoprendo come il mondo esterno viene alterato se lo si guarda da queste finestre.” 

Poi il tempo si mesce e i verdammte Jägers, i maledetti cacciatori che ci hanno accompagnati in quel mondo, spariscono, per far risentire la loro minaccia soltanto da lontano, dai confini, e diventano soltanto una delle tante minacce che accerchiano lo sgarrupato regno del padre di Gelsomina, Wolfang, lo straniero idealista che lotta per un mondo che sta morendo. Il vero pericolo però, la minaccia, è all’interno della famiglia e viene dalle donne: “È lei che ti tradirà” – dice l’amico di famiglia. È Gelsomina, infatti, che iscriverà la famiglia al concorso Le meraviglie; è Gelsomina che, pur essendo l’erede morale del padre, è curiosa di vedere Milano, vuole truccarsi, ballare e diventare come la Fata Bianca.

Non aspettatevi l’educata campagna toscana, la Rohrwacher ci riporta alla natura tout-court, al fango, all’erba alta e bagnata, agli insetti, al nulla che circonda le case dei contadini, alle donne che possono girare mezze nude intorno a casa, agli uomini che non riescono a sopportare un tetto sopra la testa, che per riuscire a dormire hanno bisogno del cielo e delle stelle, quegli uomini che hanno sempre troppo caldo, quelle donne che dormono vicine per scaldarsi e farsi coraggio, come gli animali, che serbano un segreto che non ha bisogno di essere spiegato.

Le meraviglie parla di una bambina che diventa ragazza, della sua storia d’amore col padre, delle loro incomprensioni, del loro non usare il linguaggio per comunicare ma i gesti, attraverso i loro goffi tentativi di dirsi quanto si vogliono bene e quanto soffrono l’uno per l’altra. Simbolo dello sfasamento di ritmo imposto dalla crescita della figlia è l’apparizione del cammello, regalo costoso di un desiderio ormai mutato, che ricorda i cervi lynchiani di Una storia vera. Improvvisamente, però, il film accelera, si accavallano troppi scarti narrativi quando ne bastavano pochi, quelli sufficienti a raccontarci lo stare volontariamente fuori dai giochi, il mettersi dolorosamente da parte, ciò che i bambini fanno più fatica a capire di certi adulti. Ci eravamo ormai affezionati a quel loro essere giusti e sbagliati, severi e fragili, lontani e vicini,  Abseitern. Questo accumulo, che vorrebbe mostrare la frattura tra il mondo di Wolfgang e Gelsomina e quello della società dello spettacolo, dell’Italia che crede nella televisione, sposta bruscamente il centro del racconto, e non basta il ritorno alla caverna, alle ombre che corrono sulle pareti della grotta in cui Gelsomina passa la sua prima notte lontana dalla famiglia, non basta il fischio che imita il canto dell’allodola. Per farci accettare questo confronto abbiamo bisogno del tempo, di polvere, di stanze vuote.

 

Uscito su Recencinema.

 

Class Enemy, Rok Biček (2013)

 

Ich möchte schlafen, aber du mußt tanzen.

"Vorrei dormire, ma tu devi danzare."

Theodor StormHyazinthen (Giacinti)

 

Forse questo film celebra il trionfo degli “occhiazzurrini”, forse narra le storie di quei Blauäugigen di cui parlava Thomas Mann. I vincenti, i biondi, gli ordinati, quelli che riescono a sopravvivere perché pensano soltanto cose di cui si può parlare. Quelli che riescono a esprimere quello che non riesce a dire Sabina, la grande assenza di questo film, l’apparente protagonista per sottrazione, la debole. Sabina, la ragazza che al mattino, prima di andare a scuola, indossa sempre lo stesso maglione per semplificare la realtà che la circonda ed eliminare dalla sua giornata almeno quella scelta; Sabina, che ha sempre la solita faccia quando i professori fanno l’appello. Una faccia fastidiosa per quanto è monotona, ci si ritrova a pensare, all’improvviso dalla parte dei lupi. Sabina, che al pianoforte suona sempre la stessa sonata. Sabina, che ha tutti gli accessori dello stesso colore – il giallo, il più instabile a detta di Kandinskij, e per lo stesso motivo il più odiato da Dostoevskij. Sabina l’Unbedeutend, l’insignificante, così come Tonio Kröger che “scriveva versi e non sapeva nemmeno rispondere alla domanda, che mai pensasse di fare nel mondo”. Sabina che si uccide senza lasciare tracce. E in fondo noi, a cui non interessa il motivo. 

Lo spettatore è messo così di fronte all’unico gesto arbitrario dell’intera vicenda. Non ci interessa sapere il perché. Sabina rappresenta soltanto una delle tante forze, o delle tante anti-forze, che fanno muovere il film e che occupano il dato microcosmo scolastico. Il gruppo di studenti ribelli, “rivoluzionari”, ha bisogno di identificarsi contro un nemico comune per rimanere unito e sfoga tutta la sua rabbia contro la figura del professore di tedesco, Robert Zupan. In realtà ciascun componente della classe combatte contro tutto e tutti, in direzione opposta e contraria, confuso come una scheggia impazzita, cercando di stare a galla per non sprofondare nella corrente. È proprio questo ciò che vuole insegnare il professor Zupan: raggiungere la riva, issarsi a bordo, sottrarsi ai vortici creati dalle correnti contrastanti di cui si è vittime. I ragazzi sembrano fluttuare attorno al maestro, come le falene contro il bulbo di una lampadina accesa al buio. Sabina, invece, ha deciso di fermarsi, a modo suo. È forse l’unica, o la prima, che ha imparato la lezione del professore, che in questi termini, se vogliamo, diventa davvero il colpevole. Nella penombra della sala iniziamo a capire che dobbiamo compiere anche noi una scelta, ma non ci viene indicata una strada. Il regista evita di schierarsi e la nostra esperienza continua ad aderire spontaneamente ad alcuni tratti dei personaggi. Così, noi come loro, veniamo spinti violentemente da attrazioni e repulsioni che all’inizio non riusciamo ad afferrare. Il regista riesce a gestire la qualità complessa del tema creando un’atmosfera compatta, e quando viene interrogato sull’idea narrativa che ha dato origine al film rimaniamo quasi delusi. Scoprire che si parla di una storia vera non la rende più forte, ne sottrae piuttosto una parte, la stempera. Ci troviamo davanti a una pellicola misurata, severa, che on si lascia andare, che non ci rivela tutto ma toglie, si ferma un attimo prima, per poterci dare la possibilità di sporgerci un passo oltre, da soli.

 

Uscito su Recencinema.

 

Birdman, Alejandro Gonzalez Iñarritu (2014)

 

“To the Film Industry in Crisis”
Frank O’Hara


Si è inevitabilmente indotti a pensare che Birdman sia una parodia, l’ennesimo film meta-cinematografico, meta-teatrale, meta-narrativo, meta-ecceteraeccetera, e invece no. Il film di Inarritu sembra prendersi sul serio (un po’ troppo per essere una commedia che non fa neanche troppo ridere). Va bene, ha vinto quattro Oscar ma questo, in fondo, non significa nulla.

Gli Academy Awards sono come lo Strega. Sì, la regia è strepitosa, i piani sequenza fanno venire i brividi, la fotografia travolge i nostri immaginari stanchi, il cast è straordinario… e diciotto milioni di dollari sono, tutto sommato, un budget striminzito per Hollywood. Come se non bastasse, la pellicola prende in giro – o cerca, goffamente, di prendere in giro – l’industria che l’ha prodotta. Chapeau bas. Anche la tematica è interessante: i confini sottili tra reale e iper-reale (o quello che qualcuno potrebbe definire “fittizio”), le labili coordinate della percezione temporale, l’ironia della sorte che si muove tra l’aspettativa e il destino che ci siamo creati, la volontà, la verità, i possibili e sovrapposti piani d’azione e di analisi ontologica e narrativa, tutto benissimo, tutto giusto, interessante e mozzafiato, tutto già visto. Ormai non esiste più niente di originale, certo, ma questo non dovrebbe giustificare la punizione di queste quasi due ore sottratte alla vita dello spettatore, che sembrano molte di più, in effetti, a conferma del riuscito dispiegamento di almeno uno degli interrogativi che ci propone un po’ troppo esplicitamente il film.

Tuttavia con Birdman, Iñárritu è riuscito a rendere popolare un certo genere filmico dedicato quasi esclusivamente al cinema di nicchia. Se questo fosse davvero il suo intento, non sarebbe poco, ma il dubbio rimane. Non emoziona, nonostante la tecnica, non spaventa, perché il drammatico è sempre trasformato in comico e come nei cartoni animati nessuno si fa mai male, la vita reale diventa cinema e il cinema diventa vita reale, l’elemento magico fa continuamente e spudoratamente l’occhiolino alla nevrosi, in un meccanismo già ben noto al romanzo di fine ottocento e portato agli estremi da un certo filone di non-, o auto- (che dir si voglia), fiction (si pensi a Lunar Park di Bret Easton Ellis, anno 2005). La scena del volo liberatorio di Riggan tra i grattacieli di New York non commuove come commuoveva lo sgangherato volo di E.T. (1982) o di Totò ed Edvige in Miracolo a Milano (1951). Perché? È quello che chiede anche Mike Shiner, il coprotagonista del play, subito dopo la prima di una lunga serie di anteprime, al regista: "Perché proprio Carver?" E in tutta risposta, Riggan, tira fuori dal portafoglio un pezzo di carta ripiegato con cura. Conserva una dedica dello scrittore: “Thanks for an honest performance – Ray Carver”. Momento platealmente melodrammatico, dove Riggan fa proprio quello che un attore non dovrebbe fare mai fuori dalla scena, una cosa che solo un personaggio potrebbe permettersi: si prende penosamente e intimamente sul serio. Lui ha deciso di diventare un attore dopo quel messaggio, dice. Ma Riggan non è diventato un eroe, è diventato un supereroe di Hollywood e forse attori non si diventa, attori si nasce e Mike, che attore lo è, ovviamente, lo umilia. “È stato scritto su un tovagliolino da bar” – dice – “Era ubriaco.” Perfetto, ci piace Mike e adoriamo Edward Norton, ma se le cose che Raymond Carver scriveva da ubriaco avessero meno valore di quelle che scriveva da sobrio, allora potremmo benissimo fare a meno di tutta la sua opera, e invece… Questo discorso sulla "vera realtà" è paradossale. Dato che l’unica vera realtà, per Mike, è quella che si compie e si consuma sulla scena, sancita dalla sua unica, iconica, estrema erezione durante la filata, con una pistola puntata addosso. Quindi, se per Mike l’unica realtà, l’unico recinto spazio-temporale in cui riesce a vivere, è in ultima analisi la finzione, come può dire che il messaggio di Carver sia meno valido solo perché scritto dopo parecchi bicchieri di gin in uno stato di lucidità alternativa? Ma alla fine dei conti, a chi interessa?

 

Uscito su Recencinema.

 

Inside Out, Disney Pixar (2015)

 

Riley è una ragazzina del Minnesota, appassionata di hockey (come tutte le ragazzine del Minnesota) e molto legata alla famiglia, come quasi tutte le ragazzine di quell’età, ancora al sicuro dall’adolescenza. Le sue emozioni sono molto affezionate a lei, in particolare Gioia, la prima arrivata. Anche tutti gli altri, però, vogliono dare il loro contributo alla sua crescita. Peccato che gli altri siano: Paura, Rabbia, Disgusto e Tristezza, e che i suoi genitori decidano di punto in bianco di trasferirsi a San Francisco.

La Disney è sempre stata famosa per i suoi film a lieto fine diabolicamente imposto. Qualsiasi storia passasse per le mani dei suoi sceneggiatori cangiava fino a estrudersi in un finale accogliente e rassicurante. Un esempio fra tutti La Sirenetta (1989), dove Tritone, intenerito dalla tristezza di Ariel, dona alla figlia la felicità che lei aveva cercato di guadagnarsi autonomamente, fallendo: un paio di gambe che la porteranno dritta dritta a un vestito bianco, a una torta nunziale multipiano e alla dissolvenza finale col suo bel principe sulla nave. Commovente. Eppure la storia di Andersen era una tragedia. Ariel si giocava tutto per dimostrare al principe il suo amore e nonostante questo lui sceglieva un’altra, condannandola a sacrificarsi e a pagare la sua scommessa trasformandosi in schiuma di mare. Olè. La Disney vanta un glorioso passato di storie tristi, quasi quanto Puccini, basti pensare a Dumbo (1941) e a Bambi (1942). Questo film, però non solo ci fa piangere almeno quanto i cani al circo o il leone Christian ma è un vero proprio inno alla melanconia, quell’emozione che nel cervello di Riley non esiste come materia prima, ma che nasce dall’esperienza, dall’amicizia tra Gioia e Tristezza.

Disney Pixar scrive un film per tutti quegli esseri umani zoppicanti e traumatizzati – e quindi per tutti gli esseri umani – regalandoci quello che nei nostri ricordi diventerà il novello Artax, perché non importa se sono passati secoli: le storie si nutrono ancora di sacrifici. Ciò nonostante, la pellicola si mantiene lievissima come nuvole, zucchero filato e caramelle al miele al posto di lacrime salate, composta da dialoghi che ricordano certi passi di Alice nel paese delle meraviglie (1951) per la loro trasognata assurdità. La Disney, non paga, si spinge oltre, non solo tesse questo elaborato elogio della Tristezza (usando come vero protagonista la Gioia), ma arriva addirittura a mostrare (in uno degli incubi di Riley) un cane squartato a metà, forse ultimo tabù che resiste al contemporaneo (giusto per rimanere in argomento “cani”). Ma non è ancora finita: la linea narrativa principale è affiancata da side characters di tutto rispetto che non solo citano gag storiche del cinema classico americano (come ad esempio quella dei cappelli invertiti di Stanlio e Ollio), ma si spingono fino a “Forget it Jake, it’s Chinatown” (Imagiland in questo caso, che purtroppo nella versione doppiata si perde un po’).

Insomma, abbasso i sereni, abbasso i serafici, la tristezza esiste ed è contagiosa, ma se unita alla gioia diventa bellissima. Per la prima volta non vedrete l’ora che arrivi settembre.

 

Uscito su Recencinema.

 

Neruda, Pablo Larraín (2016)

 

Questo film non è un'opera biografica, anche se sul trailer campeggia la scritta “Tratto dalla storia vera” e si potrebbe pensare ispirato a Confesso che ho vissuto – memoir in cui il poeta racconta come ha fatto a fuggire dal Cile. Questo film non parla di Neruda, questo film è Neruda e ha due protagonisti: la Politica e la Poesia. È sì un affresco del Cile degli anni '40, della sua classe dirigente corrotta, festaiola e lamentosa, che risolve tutto in alegria alegria, ma è soprattutto un film sulla scrittura, non è un film per coloro che hanno girato il mondo e sono tornati a casa felici, ma per quelli che hanno attraversato le Ande per non tornare più. No. Sì.

Uno dei meccanismi linguistici su cui si struttura tutta la pellicola, uno scarto, un bivio cognitivo, un cambio di scenario emotivo. “Conosce Neruda?” chiede Videla all’ispettore che dovrà inseguirlo, Peluchonneau. Risposta: "No. Sì". Fino ad arrivare al termine, in cui le parti come da tradizione si invertono, la narrazione si ribalta. “Bisogna sempre avere un piano meraviglioso”. Così tra le valli innevate, per l’unica volta, cacciatore e preda si parlano: “La mia voce cercava il vento per raggiungere il suo orecchio” – come nella conosciutissima poesia che il poeta è costretto a ripetere a pappagallo per far contento il pubblico, “Posso scrivere i versi più tristi questa notte”.

Neruda è un poeta, e in quanto poeta è un pericolo pubblico, ma Neruda è un intellettuale e un personaggio politico solo apparentemente, perché Neruda è la Poesia e si riconosce perché ogni tanto ha ancora il ricordo del gelo, abita una dimensione altra, è una promessa, una favola, qualcosa a cui tendere e da cui lasciarsi sfiorare, qualcosa che non si può trattenere; fa sognare, sorridere, piangere, e in questo continuo suo muoversi, scapparci, crea il mondo. Nella poesia il popolo crede e neanche la vergogna gli impedisce di farlo. Per questo decide di fuggire. Perché la poesia non può stare chiusa in casa, così le passa anche la voglia di fare l'amore. Deve travestirsi, deve sedurre i suoi persecutori. In questa storia cilena il male sembra esistere solo come resto del bene, la Storia è scritta dalla fantasia. La Poesia no llora, non piange.

Poi c'è Peluchonneau, splendido, fallito in quanto già intimamente minato, crepato in due, fragilissimo personaggio di carta e allo stesso tempo resistente come un maratoneta, come Pavese sotto la pioggia, come tutti gli “eroi” del noir. Resiste. Deciso a guadagnarsi un ruolo nella storia – con o senza maiuscola – deciso a diventare reale ed eterno come la donna amante – lei sì che lo è, non è semplicemente una creazione della parola del poeta, anzi, ne è proprio la fonte, perché lei è da molto prima, comprende tutto col suo amore, anche il rimanere indietro, anche l’essere abbandonata, dire d’accordo, togliersi gli orecchini, cambiarsi per rimanere a casa. Capisce che quella non è la sua fuga, che quella è una fuga astratta, e una donna cilena non potrà mai esserlo, lo capisce, ma vede solo cavalli rossi. Peluchonneau, invece, si rifiuta di essere il personaggio secondario, destinato a rimanere figlio di nessuno – peggio, di una puttana – antagonista, alter ego del protagonista. Solo quando accetterà il suo limite come non-limite, guadagnerà la sua esistenza; solo quando si lascerà abbracciare senza dimenarsi nel ruolo che gli è stato cucito addosso, “Poeta ti amo”, nella sua camicia di forza narrativa e sociale; quando si lascerà cingere dalla poesia, “In questo momento l’unica cosa che chiedo è che mi abbracci”, dalla poesia dei vinti, solo così smetterà di essere un perdente e morirà da eroe, di una morte bianca, innevata, nel freddo, arrendendosi alla poesia come solo uno spirito grande e umano saprebbe fare. La poesia, da allora, parlerà anche per lui, riconoscendogli la sua eternità: dirà il suo nome.

 

Uscito su Recencinema.

 

Intervista a Mario Martone

 

Durante la conversazione ha detto che non dovrebbe esserci differenza tra attori di teatro e attori di cinema, avendo lavorato in entrambe le dimensioni lei ha due modi diversi di prepararli o ha un metodo unico?

Secondo me non può esserci un metodo unico. Quando dico che non bisognerebbe distinguere tra attori di cinema e attori di teatro non voglio dire che non si debba lavorare diversamente, perché sono due mondi sostanzialmente diversi! Ogni esperienza è particolare, è un evento a sé e sicuramente un attore deve avere modo di esprimersi.

A proposito dell’utilizzo della colonna sonora nei suoi film, come fa ad assicurarsi che la musica non soverchi la narrazione – soprattutto quando si parla di musica classica – che non diventi preponderante, ma riesca invece ad accompagnare discretamente il messaggio?

Ogni volta è una storia diversa. Per esempio, in Teatro di guerra non c’era musica classica, ne L’Amore molesto nemmeno, c’era anzi Steve Lacey o Daniele Sepe. In Noi credevamo, invece, è stata utilizza molta musica colta, perché credo che la musica sia il tempo del racconto. Non si tratta tanto del ragionare guardando il passato, ma di pensare al presente dei personaggi, al loro ritmo. L’intero film non è stato immaginato come postumo, ma presente, vivo, guardava a quei personaggi attivamente, nella loro vita attuale, e allora era quella la loro musica. C’era un rapporto giusto tra storia e suono e i dialoghi diventavano quasi un libretto rispetto all’opera evocata.

Gianluigi Ricuperati ha accostato la sua opera a un concetto fondamentale per NABA, ovvero la multidisciplinarietà. Fin da giovanissimo lei ha frequentato i più vari ambienti artistici, basti pensare a Spazio Libero, storico locale napoletano del “teatro di cantina” o alla sua prima collaborazione con il gallerista Lucio Amelio. La sua opera è sempre stata attraversata da diverse influenze e spesso si è ispitata alla letteratura, confrontandosi con l’adattamento di opere già esistenti. Come ha fatto a farle sue?

Morte di un matematico napoletano, così come Teatro di guerra, è un racconto originale. I film tratti da romanzi sono invece L’amore molesto – tratto dal bellissimo romanzo di Elena Ferrante – e L’odore del sangue – adattamento del romanzo di Goffredo Parise. In questi film ho cercato di essere il più possibile fedele alla fonte, anche se spesso al cinema l’essere fedeli spesso comporta la reinvenzione. Adesso poi ci sarà Leopardi, con tutte le sue poesie…

 

Uscita su Recencinema.

 

So Much More than the Sum of its Tropes. A narrative exhibition

 

La mostra, curata da Gianluigi Ricuperati con la collaborazione di Elisa Troiano (Cripta 747), riflette sul rapporto tra linguaggio e forma. “So much more than the sum of its tropes”, è il modo in cui lo scrittore Jo Walton definì il capolavoro di Theodore Sturgeon Cristalli Sognanti (Adelphi, 1997). Tropo, dal greco trópos, derivato da trépo, “trasferisco”. Un tropo è una traslazione o deviazione di significato, essenzialmente una figura retorica. Un tropo infatti è una metafora, ma è anche una sineddoche, una litote, un’iperbole (e molte altre figure retoriche); nella teoria musicale antica "tropo" è anche la trasposizione di una scala dal modo originario a un altro, e nella musica medievale l'inserzione di una melodia con un testo originale in un brano liturgico ufficiale, l'inserzione di un testo su una melodia preesistente, e il meccanismo sviluppato dalla mostra è soprattutto quest’ultimo. So Much More than the Sum of its Tropes è qualcosa di più delle sue parti, cerca di creare un dialogo tra attitudini e discipline diverse, ma rimanendo strettamente legata dalla sua matrice narrativa primaria e specifica: i Cristalli Sognanti.

All'interno della Galleria Norma Mangione le opere d’arte ci si offrono negli angoli. A terra, la parabola di Michael E. Smith infilata in una federa bianca sembra un preservativo usato e parla di un rifiuto diventato intimità. Sopra di lei una manina sgonfia (Raphael Danke, “Ego”), disossata, dimostra che il cemento tanto caro al brutalismo può essere il materiale più morbido possibile, basta averne la memoria percettiva, sfiorare l’impronta di una foglia sul muro di Tadao Ando al Vitra. Appoggiata alla parete opposta, la lastra di Fabian Marti sembra un tappeto sotto vetro, un tappeto pieno di polvere e peli. Il total black così disturbato e nasce da un lavoro d’impressione su carta fotografica. Poi ci sono le ripetizioni del romanzo in lingue diverse, ogni edizione del libro ha un tautologico cristallo incastonato in copertina, che ci fa sospettare della fantasia spazio-temporale dell’editoria intera. Le pagine incise, recise e ritagliate in modo geometrico da Elisa Sighicelli estrudono la storia narrata nel libro, o è il disegno del cristallo a generare un cristallo vero, una pietra, un prisma, una goccia posticcia come le applicazioni di plastica nei maglioni anni Cinquanta di mia nonna. Così il diamante tondo sull’edizione francese ci fa leggere parole diverse a seconda dell’angolazione da cui lo osserviamo. Per me ingrandisce: très très très très important mot à mot, le parole si mescolano, come sotto atropina. Aff ffirma d’un ton. Zena. Hort. Coucher. La parola si scompone in forma, così come nell’opera di Enzo Mari. Vita, istruzioni per l’uso, di George Perec, diventa per questa edizione speciale del 2009 (Bur, ed. 272/660) un puzzle sfogliabile, che all’inizio nessuno si attenta ad aprire. Il significato salta da una trasposizione all’altra: l’architettura ispira la narrazione che ritorna forma, in una relazione che si crea e si distrugge di volta in volta creando fessure interpretative e la curiosità di sfogliare, di andare alla ricerca di un altro significato ancora, di un altro mondo o linguaggio possibile, proprio sotto gli occhi di Perec, che ci scruta dalla mensola trasparente creata da Richard Wentworth e 6a Architects per LUMA Foundation, irraggiungibile.

Una signora vuole comprare la colonna al centro della stanza, dove scorre a spirale il testo del curatore. Purtroppo non si può, ma il pezzo di Nucleo (“Extroflexed Crystal”) potrebbe fare al caso suo: una struttura verticale stampata in 3D e ricoperta da cristalli appositamente coltivati.  La prima opera nata in via xxx – dice scherzando Piergiorgio Robinio, a cui per il momento hanno chiuso l’atelier per "Troppa Sperimentazione", neanche fossimo in un racconto di Buzzati. I disegni floreali di Antonia Carrara nascono da disegni preparatori di cazzetti che dopo aver ispirato la natura svaniscono, fissandosi soltanto sul foglio a righe. Per quanto riguarda le due sedie di Patricia Urquiola, invece, beh, sono molto comode, e uniche. Ricordatevele perché sono fondamentali all’economia di questa storia.

Le opere diventano luoghi figurati evocando l’immaginario invocato dalla storia di Sturgeon, non sono univoche, si sciolgono e si rispecchiano nell’atmosfera instabile del libro, procedendo per intuizioni, ma senza mai distaccarsi dalla logica della trama. “Gli artisti devono superare il terrore di essere didascalici”, dice Ricuperati, “Mi sono dovuto imporre per ottenere delle visite guidate della mostra, perché alcuni si erano opposti”. Le persone invece sono curiose di sapere, di capire quello che sospettano, di abbandonarsi alla sospensione d’incredulità e di confrontare le loro impressioni ottenendo da queste intersezioni significati più sottili e ampi, e questo lo dimostra la grande affluenza all’apertura. Come si legge sulla colonna: "You must continue spinning if you want to understand. What would happen? This is the question".

Interessante è la discrepanza temporale tra il passato del tempo letterario e l’immantinenza della visione dell’opera d’arte, che si brucia tutta nel qui e ora. La disposizione nello spazio della galleria procede per distici. Ogni opera ha un suo doppio, apparentemente non-uguale, dato dalla distorsione del riflesso, a ogni riproduzione della copia si aggiungono piccole imperfezioni che sommandosi creano qualcosa di completamente diverso. Questo il prezzo – il more a cui si fa riferimento nel titolo – del passaggio da una disciplina all’altra, da una dimensione all’altra, la dimensione dei cristalli e quella degli esseri umani. Gli artisti diventano mercanti di insicurezza, e noi continuiamo a girare e girare in tondo fino alla nausea, a rimbalzare da una superficie all'altra, in cerca di comprensione. En quête. Ma come si arriva alla (o a una) fine? In questo caso c’è solo una cosa da fare, sedersi e fare quella cosa che la natura – cristalli compresi – ci invidia: leggere.

 

Uscito su Flash Art Italia..