Prefazione ad Anello di prova (Raffaelli Editore, 2016)
See, now they vanish,
the faces and places, with the self which, as it could, loved them,
to become renewed, transfigured, in another pattern.
—T.S. Eliot
Poiché la vita fugge
e chi tenta di ricacciarla indietro
rientra nel gomitolo primigenio
dove potremo occultare, se tentiamo
con rudimenti o peggio di sopravvivere,
gli oggetti che ci parvero
non peritura parte di noi stessi?
—Eugenio Montale
Secondo il poeta americano Stanley Kunitz, la poesia è il passaggio dell’anima nella valle della vita, nella storia—ora schiavitù ora libertà, rubando le punte del compasso a T.S. Eliot. A questa ‘idea’, a questo ‘senso’ di poesia, ho subito pensato leggendo Anello di prova di Lucia Brandoli.
I suoi testi sono davvero dei passaggi: anelli che tengono, dandone prova, una credibile catena di testimonianza. Con la sola eccezione di Ora—una telegrafica, epigrammatica spiegazione-rassicurazione-denuncia (“sono salva e vuota./ Salva e vuota”), pit stop fuori dal tempo e dallo spazio con cui si chiude la parte più corposa del libro, seguita da un post scriptum di liriche nuove—tutte le poesie qui raccolte sono accompagnate in calce da precise indicazioni topografiche e cronologiche, a volte anche ‘doppiate’. L’autrice sembra volerci ricordare, con Montale, che “occorrono troppe vite per farne una”: che l’unica nostra condizione permanente è di esuli itineranti; che non si finisce mai di conoscere, di capire, di imparare; che il valore della vita—e della poesia come esercizio di vita, sospesa tra commento, promessa, denuncia, testamento—sta proprio nella consapevolezza e nell’accettazione che tutto ciò che ci circonda altro non è che un passaggio di passaggi.
Non sorprende quindi che la poesia che dà il via a una serrata serie di transizioni sia intitolata Altro e si snodi come un catalogo di propositi d’acquisto: ‘pezzi’ di esistenza scanditi con una precisione di volontà e con un’intensità d’intenti che sembra preludere, sfiorandola, a un’ingordigia esistenziale e che si arresta invece con un altrettanto deciso colpo di coda, temporaneamente acquiesciuta (“Nient’altro, grazie./ Per oggi basta così”).
Attraverso un alternarsi di partenze, arrivi e ripartenze, letterali e metaforiche, ci si sente ospiti di una visione onirica in cui si compie quello che l’autrice definisce “una morte distratta”. Le fattezze e i metabolismi di questa ‘destinazione’ sono però troppo vere e troppo vicine per essere solo sognate. Nel carnevale della collettività caro a Bachtin, infatti, è in gioco e si sconta la nostra cifra individuale, sbattuta senza spiegazioni e senza scuse tra domande e risposte (spesso non pervenute); tra presenze e assenze; tra desideri e rimorsi; tra colpe e assoluzioni.
Questo scarto, però, è da sempre terreno fertile per una meditazione sincera—e quindi selfless—su quella che Heaney ha definito “la musica di ciò che accade”. Una riflessione allo stempo intimamente tirannica (“Sono qui e tu sei là”; “Non posso essere tua madre”) e generosamente democratica (“Stanotte ti ho sognato”; “quando ti è sceso il cuore nella pancia/ e io lo sentivo tutto che batteva”). Un suspension of disbelief che non è un’arresa irrazionale isolante bensì empatia mitopoietica in grado di abbracciare e fondere il proprio sé con quello altrui, di spingere l’io nel noi—come una pioggia che “lava tutto” (“La pioggia cade e io/ non è che sia arrabbiata,/ ma solo preoccupata/ perché ti bagnerai”).
Le pietre di passo di questo viaggio in versi—una volta intraprese e investite della fiducia e della promessa di una direzione—si susseguono come grani di un rosario e si traducono in una mappa preziosa, sì, ma mai scontata, mai uguale a se stessa, mai stabile, mai completamente affidabile. Biglietti dice tanto dei luoghi geografici, fisici e mentali ai quali l’autrice affida pensieri e sentimenti: spazi che “rimangono/ come i nomi sui libri/ incastrati nel posto/ impassibili e vacui, immobili/ sotto un cielo di terze/ pagine strappate con cura”.
Ogni passaggio in questo libro lascia effettivamente la sensazione che si sia compiuto uno strappo e che altri strappi possano presto compiersi: cerchi concentrici innescati dalla pietra di un’anima sensibile, attenta e reattiva che non si accontenta della superficie delle cose. L’autrice impugna la parola agisce con la forza e la precisione di un micidiale scalpello: rimosso il silicone della superficialità (“attenta a non concentrare/ il contenuto in superficie”) e dispersa la nebbia della banalità (“Amo tutte/ le cose brutte, che hanno sopportato,/ che hanno imparato a reggere/ l’imbarazzo del mezzo, circondate”), è possibile pensare di cercare l’essenza delle cose. A piccole dosi. A sprazzi. Anche alle cieca. Anche senza ricompense. Mettendo sotto scrutinio lo strumento stesso che documenta questa ricerca: la lingua. Ecco allora i versi in dialetto ravarinese di Al Siribèc, di una bellezza e di una potenza tanto semplici quanto profonde e illuminanti, come un improvviso temporale estivo che rinfresca e rinnova.
Per quanto temporanee—a volte anche ingiuste, altre volte dolorose, altre volte ancora addirittura cattive—le epifanie raccontate dall’autrice sono rivelazioni necessarie a smascherare il bluff della vita, a sollevare la coltre di allucinazioni che la lotta continua del sopravvivere quotidiano ispessisce di ora in ora.
Tra le scorie di questo percorso poetico, che dà sfogo a un processo di vera e propria disintossicazione, si intravedono non soltanto i colori dello spirto gentil che narra ma anche quelli di chi sceglie o capita di essere in suo ascolto. E non si pensi a petrarchesche promesse bensì a uno scontro sensuale con i meccanismi del mondo—un odi et amo, un fieri sentio et excrucior che trovano tregua sulla pagina.
Questa raccolta propone quindi perimetri e parametri che nella loro ordinaria universalità, sommessa come urlata, fanno subito presa: da quello che sembra, e forse è davvero, déjà vu, anche il lettore più resistente al balsamo della poesia può trarre, se non conforto e orientamento, almeno un rinnovato senso di possibilità e di speranza. Il prezzo da pagare per questo dono, pero, è alto, soprattutto per l’autrice che di questa possibilità e di questa speranza è madre generosa (“Sarà tutto quell’essere/ e andare, e agire, caro”).
È comprensibile quindi che prendano piede dubbio e paura. Ma Lucia Brandoli non si tira indietro. Accetta e confida apertis verbis la propria vulnerabilità: segno di un’intelligenza e di una maturità già solide. Quando dice di non avere mai tempo per le proprie ansie (“Non c’è mai tempo per le mie ansie”) dobbiamo dunque crederle e darle un po’ del nostro tempo: leggendola e ascoltandola. La sua ansia sarà la nostra ma grazie ai suoi versi potremo trovarci più vicini al silenzio della verità (“a tutto ciò che dice/ senza saper parlare”).
Marco Sonzogni